venerdì 31 luglio 2009

IO STO CON DON GIORGIO



Alla domenica mattina vado a Messa “in Monte”, alla funzione delle ore 8.
Mi piace la bellezza ordinata della casa parrocchiale, la semplice vetustità della chiesa, l’armonia con la quale l’edificio si inserisce nel paesaggio d’intorno, quasi fosse in simbiosi con esso. Mi piace il panorama che si gode dal sagrato, la collina spianata, a ovest, e vedere gli uomini che chiacchierano aspettando l’inizio della funzione mentre le donne, da secoli più pie, terminano il rosario, dentro. Mi piace leggere e tradurre (ogni volta!) la scritta sopra l’altare. “Stat Crux dum volvitur orbis et tempora labuntur” (“la Croce resta fissa mentre il mondo ruota e il tempo passa”)
Mi piace Don Giorgio, come mi piacciono tutti gli anziani che, non avendo più nulla da perdere, non hanno paura di niente e di nessuno.
Mi piace come si accinge all’omelia, con il capo leggermente reclinato sulla spalla, come un aquilotto nel nido.
Condivido molte delle sue idee anche se non tutte e non in modo così integrale.
Mi piace la passione che ci mette nell’esprimere i valori in cui crede e il coraggio di andare sempre controcorrente, “in direzione ostinata e contraria”, anche se poi la passione si trasforma nel brutto difetto di dire parolacce e di assumere atteggiamenti provocatori.
Non sono una fanatica di don Giorgio, non vado quasi mai sul suo sito, ma prediligo la sua Messa perché l’omelia mi fa riflettere invece che addormentare.
Al tizio che ha attaccato Don Giorgio domenica, vorrei dire che ha scelto il momento sbagliato nel luogo sbagliato.
Invece di preoccuparsi di un parroco di campagna, si preoccupi della salute del suo illustre paziente. Gli consigli di calmare i bollenti spiriti e di accettare la sua età, invece che rendersi ridicolo correndo la cavallina.
Su questa persona, il Don ha espresso un parere decisamente “soft”, un paio di domeniche fa, affermando che “il nostro Presidente del Consiglio è un porco”. Bum.
Dopo qualche giorno, lo stesso interessato ha ammesso di “non essere un santo”.
Quindi per una volta erano d’accordo, i due, perché qualcuno (ma solo un politico, credo, riuscirebbe in questa impresa) deve spiegarmi quale è la differenza tra non essere un santo ed essere un porco.
Ricordate il bambino della favola, unico nel reame ad avere il coraggio di gridare che il re era nudo?
Don Giorgio è come quel bambino: d’altra parte, non si dice che invecchiando si torna un po’ bambini? E il vangelo non dice “se non ritornerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”?
Don Giorgio, io sono con lei, a dire che il re è nudo.





giovedì 30 luglio 2009

IL CIELO HA IL COLORE DEI MYOSOTIS, OGGI

Dopo Chiavenna, finalmente, appaiono sullo sfondo le montagne svizzere, riconoscibili per la presenza esteticamente raffinata dei nevai. Grandi nuvole bianche fanno da cornice, come a voler sottolineare che sono loro, le più belle. Rassicuranti come una promessa: ho chiesto ospitalità proprio qui, perché speravo che l’ampiezza delle valli engadinesi mi liberasse dal senso di oppressione che mi accompagna in questi giorni, e la grandiosità dei suoi panorami mi risollevasse l’animo. Sono reduce da una settimana in cui mi sono trascinata come uno zombie da casa al lavoro e viceversa, contando i giorni mancanti alle ferie; giorni di caldo e afa, in cui a casa ho cucinato il minimo indispensabile al solo scopo di evitare una sommossa di protesta. Giorni in cui mi sono sentita svuotata e depressa . Alla fine, ho deciso la terapia: trascorrere una giornata nelle valli svizzere. Hanno già inventato la mountain-therapy? L'escursione inizia nei pressi della diga , prima del passo del Maloja, e la destinazione è la Capanna del Forno. E’ bello sedersi sul baule a mettere gli scarponi. Un sorso di caffè del thermos, gli zaini in spalla e via, ospiti della valle del Forno. A dispetto del nome, ci sono 15 gradi di temperatura e sento già l’ossigeno arieggiarmi il cervello. Il cartello posto all’inizio del sentiero, però, ci avvisa subito che il libro dal quale abbiamo preso informazioni è troppo ottimista: ci ha indicato 3 ore e mezza di cammino, invece che 4 ore e un quarto. Faccio finta di niente aspettandomi le rimostranze di G, che invece insolitamente accetta la sfida senza brontolamenti di sorta. Superate le baite di sasso di un borgo chiamato Salecina, il sentiero sale senza mai eccedere in un bosco di larici, arrivando al Plan canin, dove c’è un allevamento di capre. Un simpatico “ Babe maialino coraggioso” pascola all’interno della porcilaia, poi si unisce ai compagni, e tutti quanti in fila indiana vengono nei pressi della rete a salutarci. Poco sopra la baita c’è la diga a monte, e sulla centralina di accumulo dell’energia si nota chiaramente un segno distintivo del passaggio di nostri connazionali. Una scritta “padania libera” mi informa una cosa che non credevo possibile, cioè che anche gli imbecilli vanno in montagna. A pochi metri dall’interessante reperto, il cartello “fornohutte” è stato trasformato in “pornohutte”; deve essere stata la stessa mano della padania libera, riconosco lo stile. Giunti a questo punto della camminata, tutti gli svizzeri, tedeschi e stranieri di passaggio avranno risolto un dubbio che da tempo li attanagliava: come mai gli italiani hanno un capo così scemo? Semplicemente, non meritano di meglio. Dopo la diga, gli alberi spariscono e la vegetazione si riduce a macchie di nontiscordardime, grappoli di achillea, grandi fiori di arnica, genzianelle, fiorellini rosa che sembrano batuffolini di lana arrotolati e altri fiori di cui non conosco il nome. Mi faccio fotografare vicino ai nontiscordardime, perché la mia maglia antivento è in perfetta tinta col colore di questi semplici ma fantastici fiori. Il colore del cielo di oggi. Il sentiero prosegue nella pietraia che precede il ghiacciaio, fino a un ponte di ferro rotto (deviazione)e a un masso enorme con una scritta scoraggiante: per arrivare al rifugio manca ancora un’ora. Decidiamo di fermarci qui, per la stanchezza ma anche perché sono le due e da stamattina presto abbiamo bevuto solo un paio di caffè. Ci diciamo che non importa se non raggiungiamo il rifugio, è bellissimo anche così. Dopo esserci sistemati dietro un enorme sasso che offre riparo dal vento, mangiamo pane prosciutto e pomodori. Osservo il ghiacciaio, uno dei tanti che si stanno ritirando, offesi dalla nostra mancanza di sensibilità. Con la nostra prepotenza gli abbiamo perfino tolto l’aggettivo “perenne”. Vorrei usare quel ghiaccio per anestetizzare il dolore che sento dentro, vorrei disperdere nel vento gli affanni, vorrei affidare alla montagna “incantata” tutti quei pensieri che stanno mutilando la mia voglia di vivere. Non c’è bisogno di parlare. E’ sufficiente il classico rumore del torrente che scende dal ghiacciaio. Sulla via del ritorno facciamo una tappa al lago del Cavloc, che all’andata avevamo superato senza fermarci. Ci fermiamo su una panchina, dove scrivo un biglietto di auguri per il compleanno di un’amica. Il silenzio è interrotto solo dalle voci di bambini che giocano, sull’altra sponda. G. mi fa notare che era da tanto tempo che non sentiva il vociare di bambini con intorno il silenzio. E’ terribilmente vero. Rimediamo alla noia del noioso viaggio di ritorno in auto con due tappe: la prima per consumare una veloce cena di pesce, a Dorio, nei pressi di un residence per turisti tedeschi, e la seconda a Dervio, a salutare mia sorella e la famiglia del marito. Chiacchieriamo sul balcone dei suoi suoceri fino a quando diventa buio. Ci consigliano di prendere la superstrada, ma noi preferiamo la strada vecchia del lago, per assaporare la spettacolare limpidezza della notte che incombe sui piccoli paesi. Il vento che ancora soffia, instancabile, muove le acque grigio scure del lago, colora di nero profondo le sagome delle montagne e dà una nitidezza inconsueta al loro profilo, facendole sembrare più vicine di quanto appaiano di giorno. A ridosso di uno di quei neri profili, appare all’improvviso una falce di luna, anch’essa più grande del solito. “Notte scura, notte senza la sera notte impotente, notte guerriera per altre vie, con le mani le mie cerco le tue, cerco noi due. Spunta la luna dal monte spunta la luna dal monte” …. recitava una vecchia canzone di Pierangelo Bertoli. Le luci dei paesi in riva al lago, sull’altra sponda, danno un tocco di vita all’immobilità del paesaggio. La montagna mi ha ridato tutti i pensieri che pensavo di lasciarle, e me li sono riportati a casa, come si fa con i rifiuti, ma la stanchezza fisica mi dà, anche se sembra un controsenso, un riposante senso di benessere. Almeno per oggi, domani si vedrà.

domenica 19 luglio 2009

TEMPORALE E MALINCONIA

Venerdì pomeriggio mi metto sul balcone a guardare il temporale che sta arrivando. Il forte vento sembra voler staccare tutte le foglie del ciliegio, che invece rimangono attaccate alla loro pianta, ostinate. Le punte dei pini ondeggiano, le fronde dei platani sbatacchiano con furore. Tutti gli alberi si piegano, sembrano sul punto di spezzarsi , ma so che di lì a poco torneranno maestosi e fieri come prima. Se avessimo un decimo della forza di un albero, le difficoltà della vita non ci farebbero paura.
G. mi dice che va al parco per fare delle foto al temporale, e così, di corsa, lo seguo. A un certo punto pretende di far correre l’auto più veloce di quelle nuvole là, per precederle, ma quando gli intimo di farmi scendere dall’auto, desiste. In pochi secondi le nuvole si dissolvono.
Ci fermiamo alla cascina Scarpada. Da lì si vede il colle di Montevecchia e la valle. La pioggia, nel frattempo, è cessata. Nuvole di umidità salgono dal bosco come segnali di fumo, poi si disperdono nel cielo, pieno di nubi di ogni tipo. Basse, alte, bianche, grigio chiaro, grigio scuro, a strati, cumuli e nembi. Di tutto un po’. Nuvole veloci, lente, immobili. Quelle più veloci sono due nuvole basse, scure e striate che viaggiano “in direzione ostinata e contraria” rispetto a quelle poste più in alto.

Nella cascina della Costa, poco più sotto alla Scarpada, un cancelletto vieta l’ingresso. Case ristrutturate nel pieno rispetto di ciò che erano un tempo, gerani alle finestre, acciottolato ad hoc.
Tutto bello, ma io la preferivo come era prima. Ho una diapositiva (chissà dov’è) che ritrae il contadino che viveva lì (Pen del Costa) mentre spenna un pollo. Se la trovo, voglio mettere tre foto sul blog: come era questo territorio 20 anni fa, come è ora, come potrebbe essere domani coi pozzi maledetti.
Poi andiamo alla bellissima cascina Galbusera nera e anche qui, al posto del contadino Carletto, c’è un agriturismo. Il mitico Carletto l’ho incontrato poche volte, ma me lo ricordo bene. Questionava con G. a proposito delle limitazioni che le nuove norme di tutela gli ponevano: non bruciare, non tagliare, non cacciare … Contrario al parco nei primi anni della sua istituzione, alla fine ci si stava abituando.
O forse si era abituato alla presenza delle guardie ecologiche, con le quali aveva stretto un rapporto di amicizia pur continuando a litigarci. A un certo punto della conversazione, però, capitava che imponesse il silenzio per ascoltare il richiamo di un uccello: “Sent la parasciola! La me des de na a fa i vit! Oter che sta che a cascià ball!” (“Senti la cinciallegra! Mi ricorda di andare a fare le viti! Altro che sta qui a chiacchierare!”)
Infatti, il canto di questo uccello fa pressappoco così: “fa-i-vit-fa-i-vit-fa-i-vit”….(fà le viti)
L’ultima volta che sono passata dalla cascina Galbusera nera, forse un paio di anni fa, nevicava, e al ritorno avevo scritto le sensazioni che mi aveva regalato quella camminata sulla neve.
Oggi calzo i sandali, essendo uscita di casa in fretta, così anche se ha smesso di piovere non posso camminare, godere della freschezza dell’aria dopo giorni di arsura e, forse, rasserenarmi un po’.
La nostalgia di ciò che c’era qui tanti anni fa si mescola con la paura di perdere quel poco che è rimasto e questi due sentimenti mi rattristano l’animo.
Infine, andiamo alla “cà del soldato”a cercare un mazzo di chiavi che G. ha smarrito durante l’ultima uscita. Raccogliamo delle susine da un ramo caduto a terra per il forte temporale. Sono ancora acerbe, e quando torniamo a casa le metto sulla penisola della cucina ad asciugare, sperando che maturino.

sabato 18 luglio 2009

OLGIATESI, GIU’ DALLE BRANDE!



Ieri sera ho partecipato all’ assemblea pubblica “Petrolio,rischi e danni”organizzata dal comitato NO AL POZZO, a Olgiate Molgora.
Abbiamo visto, come in una sfera di cristallo, cosa ci può riservare il futuro: nientemeno che la morte del nostro territorio e il deterioramento della nostra qualità di vita, dentro o fuori dal Parco del Curone.
Che i pozzi si facciano a Bagaggera o a Cernusco, la sostanza non cambia. Punte di diamante lubrificate con sostanze tanto sconosciute quanto nocive trafiggeranno il suolo, i fumi saturi di acido cloridrico si spargeranno nell’aria, gli scarti delle lavorazioni verranno seppelliti in discariche.
Veleno nel suolo, nelle falde acquifere, nell’aria che respireremo, e la spada di damocle di possibili incidenti sulla testa. In un territorio ad altissima densità abitativa. Perché, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, e quando a Trecate esplose il pozzo i tecnici non sapevano cosa fare.
Ieri sera si è parlato tanto di economia e di soldi. Quando sentivo la parola “risarcimento”, mi ribolliva il sangue. Avrei voluto alzarmi e urlare: noi non vogliamo essere risarciti! Non vogliamo neppure sentir parlare di soldi! Non vogliamo vendere la nostra casa e scappare! Vogliamo continuare a vivere qui, dove ci sono i nostri affetti e le nostre radici.
E’ stata una serata strana, oserei dire tragica, e stanotte non sono riuscita a dormire, come se invece che ad una assemblea fossi andata a vedere un film dell’orrore. Anzi, peggio: come se al termine della proiezione mi avessero detto che il film si sarebbe trasformato, di lì a poco, in realtà.
I relatori sono stati bravissimi: brevi, concisi, efficaci, mai noiosi. Al termine, la parola è passata al pubblico. Ci fossimo trovati in un’altra regione d’Italia, la reazione sarebbe stata di rabbia urlata, parole scomposte, minacce di morte alla Povalley, incitamenti alla folla di improvvisati capipopolo. Ma qui siamo in Brianza.
Il pubblico è intervenuto, numeroso, fino a mezzanotte: proposte serie, domande appropriate, interventi razionali, atteggiamento dignitoso. La passione la si doveva intuire sotto le parole, non è mai stata sbandierata. La paura era ben nascosta. Non so se questo sia un bene o un male.
Ciò che mi preoccupa è la poca partecipazione degli abitanti: il due per cento dei residenti, a occhio e croce. Colpa di un difetto di comunicazione (tante informazioni sul web, poche con i sistemi tradizionali?) o di un certo disinteresse dei cittadini verso tutto ciò che è di interesse pubblico?
Ad ogni modo, Olgiatesi, svegliatevi! Non è il momento dei se, ma, forse, vedremo. Mettiamo banchetti fuori dalle chiese, riempiamo le strade con striscioni, scriviamo lettere ai giornali, interpelliamo Celentano, la Ruggieri, George Clooney . Mettiamo un cartello sul cancello di casa: qui si firma contro la morte della nostra terra.
E’ ora di agire: GIÙ DALLE BRANDE!

domenica 12 luglio 2009

QUESTA TERRA E' LA MIA TERRA

La gente arriva alla manifestazione “Piantiamo alberi, non trivelle” a piedi, perché la strada è chiusa al traffico. Sul cartello del divieto di transito, qualcuno ha scritto: “Trivellatevi il cervello”.
Bagaggera è una frazione formata da qualche cascina e tanti campi. Mi sistemo sul pratone più alto e osservo il corteo, guidato dai Sindaci. Vengono piantumati due gelsi. Il gelso è un albero di cui un tempo erano pieni i campi, perché le sue foglie erano il cibo del baco da seta, il cui allevamento costituiva per i nostri nonni un’integrazione ai magri guadagni del lavoro di contadino. Muron, si chiamano in dialetto. Ora non se ne vedono quasi più.
Terminati i discorsi mi siedo sul prato, di fronte al palco dove suoneranno.
Da questa altezza ho una visuale completa : le cascine, i terrazzamenti, i banchetti delle firme, delle magliette e degli assaggi gastronomici, il prato sottostante che si riempie di colori e voci.
Le persone che arrivano dalla strada defluiscono qui e là in disordine, come formiche che hanno perso la strada di casa. Passeggini, cani, bambini che perdono mamma e papà, giovani, adulti e perfino qualche anziano con la sedia appresso. Un bimbo fa i capricci davanti a una fetta di anguria, la mamma si impegna a togliere ogni infinitesimale nocciolino, ma il pargolo non accenna a calmarsi. Il rosso del frutto è talmente fresco e invitante che mi verrebbe voglia di scippare la fetta e riempirmene la bocca assetata , così il bambino piangerebbe per un motivo serio. Cerco qualche viso conosciuto. Nessuno. Di tutto il mio paese, riconosco solo il Sindaco, mio marito e un ex compagno di scuola di mio figlio, diventato fricchettone. Chiedo ai miei vicini di prato da dove vengono: Verderio.
Forse per la solita storia che quando hai una cosa non ti accorgi del suo valore?
Un urlo riporta la mia attenzione alla famigliola di prima, dove si è consumato l’epilogo che avevo previsto: la fetta di anguria contestata è caduta. (Ben gli sta)
Se guardo in alto, invece, lo spettacolo si fa più riposante. In cima alla collina, dove finisce il verde scuro dei boschi e inizia l’azzurro del cielo, ecco il Santuario di Montevecchia, con una bella nuvola che gli fa da cornice. Sembra che guardi in basso, su questi due pratoni verde chiaro, rasati di fresco, pieni di vita come una giostra.
E’ iniziato il concerto. I due musicisti -cantanti- autori – gridano il loro e il nostro no a chi vuole comprare questa terra. Hanno anche tradotto in italiano una canzone di Woody Guthrie, “Questa terra è la mia terra”. Sono loro riconoscente, quasi commossa, perché mi ricorda il film omonimo che mi aveva tanto colpito, in gioventù. Oltre a cantare, leggono brani degli indiani d’America, e pur così giovani, dicono cose sagge. Penso a mio figlio, così lontano da queste cose. Mi piacciono proprio, questi due. Bevono acqua, non la solita birra, e dicono di non buttare i mozziconi per terra. Questa terra è la mia terra, non potevano trovare una canzone più azzeccata. La terra delle nostre radici. Qui il mio bisnonno fece il contadino a mezzadria, mangiò solo polenta, si ammalò di pellagra e si uccise all’età di 42 anni.
Ehi! Non ho fatto in tempo a distrarmi un momento che i musicisti sono lì che tracannano vino da un bottiglione enorme. La riabilitazione del mio figlio disimpegnato è immediata. No, non vorrei che fosse così. Mi sta più che bene anche cosà.
Resto sul prato ad ascoltare il concerto fino alla fine, poi me ne torno a casa. Non prima di aver dato un ultimo sguardo al Santuario della Beata Vergine del Carmelo. Spero che il Carmelo, la Vergine e tutti i Santi continuino a guardare giù, su questa terra che è la nostra terra, anche quando tutti se ne saranno andati.




QUESTA TERRA È LA TUA TERRA
Testo e musica di Woody Guthrie
Questa terra è la tua terra, questa terra è la mia terra
Dalla California fino all’isola di New York
Dalla foresta di sequoie fino alle acque della Corrente del Golfo
Questa terra è stata fatta per te e per me
Mentre percorrevo a piedi un pezzo di autostrada
Ho visto sopra di me una strada infinita nel cielo
E ho visto sotto di me una valle tutta d’oro
Questa terra è stata fatta per te e per me
Ho vagato senza meta e sono tornato sui miei passi
Fino alle sabbie scintillanti dei deserti di diamanti
E tutt’intorno a me risuonava una voce
Questa terra è stata fatta per te e per me
Mentre passeggiavo il sole splendeva
I campi di grano ondeggiavano e le nubi di polvere si rotolavano
La nebbia si sollevava e una voce cantava
Questa terra è stata fatta per te e per me
Mentre camminavo, ho visto un cartello
Su cui c’era scritto “Vietato l’accesso»
Ma dall’altra parte non c’era scritto niente!
E quella parte è stata fatta per te e per me!
Nelle piazze della città, all’ombra del campanile
Vicino all’ufficio sussidi, vedo lo mia gente
Alcuni si lamentano e alcuni si chiedono
Se questa terra sia fatta ancora per te e per me.
(traduzione di Giampiero Cara)

venerdì 10 luglio 2009

UNA MANO LAVA L'ALTRA, E TUTTE E DUE... VENDONO IL PARCO


Guardate il video dell’atto finale , in senato , della vicenda “Petrolio nel Parco del Curone”.
http://www.youtube.com/watch?v=m3ruZBZQnEE
Osservate le mani di Bodega: mentre si accinge a parlare, una mano lava l’altra, poi si stringono. Si chiama “linguaggio del corpo” e a volte è più chiaro delle parole. (In questo caso, non ci voleva molto: ha parlato in puro politichese, non si è capito un’acca)
Bodega ha lavato la mano che al termine dell’intervento schiaccerà il bottone. Forse quella mano ha stretto quella di gente che crede (ancora!) che alle parole debbano seguire i fatti. Che la parola data vada mantenuta. Che non è bello dire le bugie.
Con un semplice gesto lava via le promesse di mesi (niente trivelle se il parco non le vuole) , le parole di anni (padroni a casa nostra), i voti di tanti (qualcuno se ne accorgerà? Dove siete, leghisti? Parlate!)
Bodega conclude il breve e sconclusionato intervento dicendo che non voterà. E’ chiaro, se ne vuole lavare le mani. Per evitare future accuse, vuole fare il Pilato dei pozzi. Contestato dagli avversari, dice che voterà contro, giusto per fare loro dispetto, così imparano a contestare la sua ignavia.
E il ministro Castelli, dov’è? Ha paura di doversi rimangiare le sue stesse parole, lette dalla senatrice Mazzucconi? E’ malato? Brunetta gli ha mandato il medico fiscale? Ah, no, forse è in giro a fare politica sul territorio, da bravo leghista. Ma quale territorio? Quello che da casa sua porta alla poltrona.

domenica 5 luglio 2009

INDULTO e INTERCETTAZIONI : DUE FACCE DELLA STESSA FREGATURA


Uno dei primi provvedimenti del governo Prodi fu l'indulto. Si comincia bene-pensai.
D'Alema ne minimizzò le conseguenze dichiarando, con la sua aria snob e il tono magnanimo che la questione imponeva, che in fondo si trattava "solo" di ridare la libertà a quindicimila "poveracci". Mi sbaglierò di sicuro sul numero, ma non sul termine, perché ricordo che pensai: per quale ragione un delinquente diventa automaticamente un poveraccio il giorno in cui va in galera? E poi pensai anche: Se questi sono poveracci, come definire le loro vittime? Poveracci di seconda scelta? O semplicemente degli sfigati?
E, continuai a pensare, una volta usciti dal carcere i beneficiari dell'indulto, perdonati senza nemmeno aver dovuto chiedere perdono, avendo con la libertà perso la qualifica di poveracci, come avremmo potuto definirli?
Un vero dilemma al quale non riuscii a trovare risposta, mentre non ebbi incertezze nel trovare il giusto termine per le vittime, che passavano dallo status di "sfigato" a quello di "cornuto e mazziato".
Io credo nell’alto valore educativo del castigo. Se proprio vogliamo abolire questa parola perché ci ricorda odiosi, immeritati, esagerati provvedimenti subiti nell’infanzia, possiamo sostituirla con il termine “conseguenza delle proprie azioni”. D’altra parte, le nostre azioni quotidiane sono dettate dalle conseguenze che ne derivano: al mattino ci alziamo per andare a lavorare, e lo facciamo per guadagnarci la benedetta pagnotta. O no?
Ora. Una delle prime proposte di legge del governo Berlusconi 2008 ha riguardato la limitazione delle intercettazioni telefoniche. "Si comincia bene" ho pensato anche stavolta.
Nella mia ottusa ingenuità penso che una persona onesta non abbia niente da temere da qualsivoglia intercettazione. Quindi la legge serve per proteggere coloro che hanno qualcosa da nascondere, traffici illeciti e via dicendo.
Cosa hanno in comune la legge anti-intercettazioni e l’indulto di cui parlavo prima?
Semplice: entrambi i provvedimenti mi inducono a sospettare che i governi, di qua o di là, abbiano come priorità la difesa di coloro che non rispettano le leggi. Questo governo lo fa in modo più economico del precedente: inutile metterli in galera per poi toglierli! Meglio risparmiare sulla spese dei processi e dell'assistenza carceraria. Alla faccia del governo che ha come priorità la sicurezza, cara lega dei miei stivali.
Sapete che vi dico?
Io, cittadina che guadagna 1000 euro al mese, che paga le tasse fino all'ultimo cent, che affronta il carovita ogni sacrosanto giorno, che parla al telefono fregandosene delle intercettazioni, che ascolta i discorsi dei politici con crescente disagio, … io... mi sento tanto una poveraccia.

giovedì 2 luglio 2009

Sempre caro mi fu quest'ermo colle




Salviamo il Parco di Montevecchia e della Valle del Curone: morbide colline, cascinali, coltivazioni alternate a boschi, aziende agrituristiche, cipressi, terrazzamenti, torrenti e sorgenti; sembra di essere in Toscana, invece siamo tra le due città di Milano e di Lecco.
Qui da oltre vent'anni decine di volontari amanti della natura donano il proprio tempo per fare vigilanza ecologica, educazione ambientale nelle scuole, visite guidate e cura del territorio. C'è un sasso, chiamato "belsedere", dove si dice che il cardinale Schuster in visita pastorale si fermò per riprendere fiato dopo la salita , esclamando : “Ah, che bel sedere!”. Dalla cima del colle, quando è sereno la vista spazia sulla piatta estensione dell’hinterland milanese. Sopra la distesa di costruzioni, il cielo non c’è più: sparito, sostituito da un lenzuolo grigio, come il coperchio di una pentola. È la cappa di smog. La metropoli è come un mostro che allunga i suoi tentacoli verso questa collina.
Le nostre dolci colline coltivate a vite, rosmarino e salvia, miracolosamente scampate alle gru e ai tentacoli dell'hinterland milanese, sono ora minacciate da un secondo mostro, arrivato alla chetichella ma ancora più infido e pericoloso del primo, come nei film di Harry Potter. Il mostro è nero, viscido, puzza , ha gli occhi di bragia e vuole violentare la terra fino a 6000 metri di profondità. Si chiama Po Valley ed è una società petrolifera australiana.
Dove andranno, i nostri nipoti, a osservare girini e salamandre, sentire la risata del picchio verde, scoprire le tracce degli animali del bosco, fare mille domande sui prodigi della natura, o semplicemente correre nel prato con altri bambini? Direttamente nel pozzo?
Prima delle elezioni i politici sono saliti al colle di Montevecchia a spergiurare che si sarebbero impegnati per tutelare il Parco. Alcuni addirittura negavano l’evidenza, e con la testa sotto la sabbia sostenevano che la storia del petrolio era una montatura della sinistra.
Non mi aveva certo convinta quella sfilata di politici al colle, ma mi ero detta: non c’è altro da fare. Facciamo finta di crederci.
Infatti, ieri in parlamento è passata la legge che bypassa il parere degli enti locali in materia energetica.
I politici sono venuti al colle a stringere la mano del presidente del Parco, ma poi l’altra mano l’hanno usata per votare contro il Parco. Che dire, dopo gli ultimi scandali hanno deciso di riportare un pò di etica nella politica mettendo in atto il precetto evangelico “Non sappia la tua mano destra quello che fa la tua mano sinistra”. Buon pro gli faccia!! C’è perfino una sindrome neurologica chiamata “la mano anarchica”: le persone che ne sono affette avvertono un conflitto fra la loro volontà dichiarata e l’azione di una delle loro mani. Se non fosse una malattia rarissima direi che è un virus che imperversa a Montecitorio.
In realtà hanno usato la questione per prendere qualche voto in più, e noi siamo rimasti cornuti e mazziati. Io possiedo solo una matita spuntata, come arma, cosa posso fare?
Il gigante si sta avvicinando a grandi falcate e in men che non si dica schiaccerà le viti con un piede, il rosmarino con l'altro, mangerà me e la mia ridicola matita, si siederà sul “belsedere”, la collina sprofonderà e dalla voragine uscirà una fontana di petrolio. Non potremo nemmeno avere la consolazione di morire col l'olio santo, ci metteranno nella bara con un pò di sporchi soldi in mano e ci diranno che l'olio nero è molto meglio di quello santo, ormai passato di moda.