Ogni volta che si preparano le valigie si dimentica qualcosa di più o meno necessario: l'anno scorso la spazzola per capelli,
sabato 31 luglio 2010
giovedì 29 luglio 2010
tu e il tuo cavolo di gelato
Nel baule, tre chili e seicento grammi di gelato siciliano si stanno squagliando. Seduto dietro come d'abitudine, papà se ne frega dello stato fisico del gelato ("ne comprerai dell'altro") e guarda orgoglioso il suo orto, contento di quest'acqua diluviante che bagna "i zuchet, i tumates, i kiwi", rassicurato dalla presenza della rete antigrandine a protezione delle trecento piante di pomodori.
Ma dato che l'accoppiata pomodori-papà merita un post a parte, procediamo sotto quest'acqua benedetta e sferzante.
... Procedere dove? Sono passati venti minuti e non c'è tregua. Appena faccio per aprire la portiera, giù uno scatafascio d'acqua. Se spanno i finestrini vedo i poveri alberi condominiali che si contorcono, mentre nuvole d'acqua portate dal vento si disperdono in ogni direzione. Furgoni di ambulanti scappano dal mercato settimanale schizzando acqua violenta sui finestrini della mia auto, ferma sul retro casa dei miei.
"Tu e il tuo cavolo di gelato", gli dico. Gliel'avevo detto, che non era il caso di fare quella tappa: il cielo era tutto nero, e sul lunotto un incipit di temporale aveva già sputato le prime gocce anticipatorie. Ma ormai è diventato un rito: al ritorno dal centro trasfusionale, è d'obbligo fermarci a comprare QUELLA MARCA di gelato, che vendono solo in QUEL posto. Sta mangiando quintali di gelato, quest'anno. Gli verrà anche il diabete.
Avevo tentato di dissuaderlo con un "Papà, sta arrivando un temporale coi fiocchi. Magari grandina e mi picchia la macchina nuova" .
In realtà della macchina non me ne fregava niente, in passato comprai addirittura un'auto nuova già grandinata, solo non avevo voglia di fare quella tappa, anche perchè il gelato gliel'avevo già comprato settimana scorsa.
"Che mi interessa a me della grandine? Cosa l'ho messa a fare la rete antigrandine?"
Provo a cambiare strategia, anche se so già che lo accontenterò.
"Te l'ho detto prima, il gelato te l'ha già comprato G. E' nel mio congelatore perchè nel tuo non ci stava più niente"
"Di che colore me l'hai preso?"
"Bianco, mi avevi detto che lo volevi bianco. Ti ha preso un fiordilatte, una panna cotta, un nocciola-torrone."
"Ma adesso lo voglio nero"
.... Tanto, mi ero già fermata.
E adesso siamo di nuovo fermi, anzi bloccati, anzi in ostaggio, anzi ancora 5 minuti e mi viene un attacco di claustrofobia.
"Proviamo a scendere, papà?"
"Te se mata! De nà a ciapà so vergot!" (sei matta! d'andare a prender su qualcosa)
Vai a capirlo, questo mio padre. Rischia la vita ogni volta che sale su un albero, ma non vuole prendere due gocce d'acqua.
Secondo me, gli piace stare qui seduto, dietro la sua taxista, a osservare la sua casa il suo orto la serra la scala caduta (l'avrà appoggiata male) il garage la ciliegia, e le corse di quelle ragazzine fradicie, che ridono sotto la pioggia.
Dopo mezz'ora lo faccio scendere. Sciaff, sciaff, i piedi si tuffano nel fiumiciattolo del vialetto che porta al "casello", dove c'è il congelatore. Ci bagniamo, lui con il mio ombrello rotto e io con lo scatolone del suo gelato nero.
Ma dato che l'accoppiata pomodori-papà merita un post a parte, procediamo sotto quest'acqua benedetta e sferzante.
... Procedere dove? Sono passati venti minuti e non c'è tregua. Appena faccio per aprire la portiera, giù uno scatafascio d'acqua. Se spanno i finestrini vedo i poveri alberi condominiali che si contorcono, mentre nuvole d'acqua portate dal vento si disperdono in ogni direzione. Furgoni di ambulanti scappano dal mercato settimanale schizzando acqua violenta sui finestrini della mia auto, ferma sul retro casa dei miei.
"Tu e il tuo cavolo di gelato", gli dico. Gliel'avevo detto, che non era il caso di fare quella tappa: il cielo era tutto nero, e sul lunotto un incipit di temporale aveva già sputato le prime gocce anticipatorie. Ma ormai è diventato un rito: al ritorno dal centro trasfusionale, è d'obbligo fermarci a comprare QUELLA MARCA di gelato, che vendono solo in QUEL posto. Sta mangiando quintali di gelato, quest'anno. Gli verrà anche il diabete.
Avevo tentato di dissuaderlo con un "Papà, sta arrivando un temporale coi fiocchi. Magari grandina e mi picchia la macchina nuova" .
In realtà della macchina non me ne fregava niente, in passato comprai addirittura un'auto nuova già grandinata, solo non avevo voglia di fare quella tappa, anche perchè il gelato gliel'avevo già comprato settimana scorsa.
"Che mi interessa a me della grandine? Cosa l'ho messa a fare la rete antigrandine?"
Provo a cambiare strategia, anche se so già che lo accontenterò.
"Te l'ho detto prima, il gelato te l'ha già comprato G. E' nel mio congelatore perchè nel tuo non ci stava più niente"
"Di che colore me l'hai preso?"
"Bianco, mi avevi detto che lo volevi bianco. Ti ha preso un fiordilatte, una panna cotta, un nocciola-torrone."
"Ma adesso lo voglio nero"
.... Tanto, mi ero già fermata.
E adesso siamo di nuovo fermi, anzi bloccati, anzi in ostaggio, anzi ancora 5 minuti e mi viene un attacco di claustrofobia.
"Proviamo a scendere, papà?"
"Te se mata! De nà a ciapà so vergot!" (sei matta! d'andare a prender su qualcosa)
Vai a capirlo, questo mio padre. Rischia la vita ogni volta che sale su un albero, ma non vuole prendere due gocce d'acqua.
Secondo me, gli piace stare qui seduto, dietro la sua taxista, a osservare la sua casa il suo orto la serra la scala caduta (l'avrà appoggiata male) il garage la ciliegia, e le corse di quelle ragazzine fradicie, che ridono sotto la pioggia.
Dopo mezz'ora lo faccio scendere. Sciaff, sciaff, i piedi si tuffano nel fiumiciattolo del vialetto che porta al "casello", dove c'è il congelatore. Ci bagniamo, lui con il mio ombrello rotto e io con lo scatolone del suo gelato nero.
venerdì 23 luglio 2010
Che fai tu, luna, in ciel?
Furiosa con mio figlio, con quel senso di amaro in bocca che nemmeno la dolcezza dell'ultima fatta di melone ingurgitata prima di allontanarmi da tavola riesce ad attenuare, me ne vado a letto a leggere.
martedì 20 luglio 2010
Che tu sia per me il coltello -2-
http://dalle8alle5.splinder.com/ aveva commentato, il mese scorso, il mio post "Che tu sia per me il coltello", così:
"Questo libro l'ho letto molti anni fa e mi aveva colpito l'idea di mostrare di sé solo le parole. Poi ho "conosciuto" in Rete un uomo che si è comportato quasi esattamente come Yair, solo che io non sono Miriam e, alla fine, il rapporto virtuale è morto soffocato dalla mancanza di reale."
Le avevo risposto: dalle 8 alle 5, ho risposto al tuo commento, che è uno spunto mica da ridere, ma poi mi sono accorta che più che un controcommento l'argomento meritava un post. Un post piccolo, ma messo al suo posto. L'ho scritto e messo in bozze. Lo lascio in deposito un tot e poi pubblico, ti farò sapere quando. Perchè in deposito? Perchè post vuol dire dopo, mica subito.
Il dopo è arrivato oggi, e pubblico
"Penso ai rapporti virtuali ben sapendo di pensarci con una gran confusione di sentimenti contrastanti, scrivo ben sapendo che trattasi di soggettive interpretazioni , infine rileggo ciò che ho scritto riservandomi di cambiare idea anche domani.
I rapporti virtuali sono una novità che dobbiamo ancora capire, sperimentare e metabolizzare, specie noi della generazione a.www, leggesi ante web.
Quelli che gli amici se li sceglievano nei 20 metri quadrati di una classe, nella strada a senso unico trasformata in campo di gioco, alle feste di paese, nei tentativi di abbordamento, nella casualità di un incontro, nel locale dell' amico dell'amico dell'amico.
Per quel poco che ne ho vissuto io, è difficile coltivare un web rapporto basato sulla sincerità, lealtà e verità, requisiti indispensabili a una amicizia, a meno che per amicizia si intenda quella di facebook, che sta alla mia idea di amicizia come la cicoria sta al caffè. Il problema è che nella grande ragnatela mondiale non ci vuole niente a mostrarsi con il proprio vestito migliore, e si nascondono troppo facilmente sotto il tappeto i vecchi stracci, che invece non sono altro che il nostro vero io"
Perché sono andata a rispolverare questo abbozzo di post? Perché mi è tornato in mente ieri sera, rispondendo alla mail di una conoscenza per caso, al quale ho ribadito il concetto:
“Credo che il web sia uno strumento fantastico, ma anche pericoloso: può prenderti la mano e nel momento in cui la second life diventa più allettante della first life, è un casino. Credo che i contatti web siano affascinanti, ma anch'essi pericolosi, per l'assenza del linguaggio corporeo, stupendo strumento di verità, per la possibilità di travisare, equivocare, per la tendenza a mostrarci agli sconosciuti con il nostro abito migliore. Il nostro vero io in realtà si nasconde sotto la tastiera, e colui che legge si trova sul monitor nient'altro che un avatar vestito della festa, che vuole solo ricevere un applauso. COME ME, adesso. ... o COME TE, che mi paragoni a una persona senza nemmeno conoscermi”
La conoscenza per caso mi ha risposto che ci ha ripensato: non sono affatto come quella persona là, che "... in effetti era diversa da te, meno ruvida e scostante."(Vedi che avevo ragione, a dire che non potevi paragonarmi?)
Non mi sono offesa, anzi lo ringrazio perchè mi ha fatto pensare, e i miei pensieri glieli scriverò in diretta.
"Questo libro l'ho letto molti anni fa e mi aveva colpito l'idea di mostrare di sé solo le parole. Poi ho "conosciuto" in Rete un uomo che si è comportato quasi esattamente come Yair, solo che io non sono Miriam e, alla fine, il rapporto virtuale è morto soffocato dalla mancanza di reale."
Le avevo risposto: dalle 8 alle 5, ho risposto al tuo commento, che è uno spunto mica da ridere, ma poi mi sono accorta che più che un controcommento l'argomento meritava un post. Un post piccolo, ma messo al suo posto. L'ho scritto e messo in bozze. Lo lascio in deposito un tot e poi pubblico, ti farò sapere quando. Perchè in deposito? Perchè post vuol dire dopo, mica subito.
Il dopo è arrivato oggi, e pubblico
"Penso ai rapporti virtuali ben sapendo di pensarci con una gran confusione di sentimenti contrastanti, scrivo ben sapendo che trattasi di soggettive interpretazioni , infine rileggo ciò che ho scritto riservandomi di cambiare idea anche domani.
I rapporti virtuali sono una novità che dobbiamo ancora capire, sperimentare e metabolizzare, specie noi della generazione a.www, leggesi ante web.
Quelli che gli amici se li sceglievano nei 20 metri quadrati di una classe, nella strada a senso unico trasformata in campo di gioco, alle feste di paese, nei tentativi di abbordamento, nella casualità di un incontro, nel locale dell' amico dell'amico dell'amico.
Per quel poco che ne ho vissuto io, è difficile coltivare un web rapporto basato sulla sincerità, lealtà e verità, requisiti indispensabili a una amicizia, a meno che per amicizia si intenda quella di facebook, che sta alla mia idea di amicizia come la cicoria sta al caffè. Il problema è che nella grande ragnatela mondiale non ci vuole niente a mostrarsi con il proprio vestito migliore, e si nascondono troppo facilmente sotto il tappeto i vecchi stracci, che invece non sono altro che il nostro vero io"
Perché sono andata a rispolverare questo abbozzo di post? Perché mi è tornato in mente ieri sera, rispondendo alla mail di una conoscenza per caso, al quale ho ribadito il concetto:
“Credo che il web sia uno strumento fantastico, ma anche pericoloso: può prenderti la mano e nel momento in cui la second life diventa più allettante della first life, è un casino. Credo che i contatti web siano affascinanti, ma anch'essi pericolosi, per l'assenza del linguaggio corporeo, stupendo strumento di verità, per la possibilità di travisare, equivocare, per la tendenza a mostrarci agli sconosciuti con il nostro abito migliore. Il nostro vero io in realtà si nasconde sotto la tastiera, e colui che legge si trova sul monitor nient'altro che un avatar vestito della festa, che vuole solo ricevere un applauso. COME ME, adesso. ... o COME TE, che mi paragoni a una persona senza nemmeno conoscermi”
La conoscenza per caso mi ha risposto che ci ha ripensato: non sono affatto come quella persona là, che "... in effetti era diversa da te, meno ruvida e scostante."(Vedi che avevo ragione, a dire che non potevi paragonarmi?)
Non mi sono offesa, anzi lo ringrazio perchè mi ha fatto pensare, e i miei pensieri glieli scriverò in diretta.
venerdì 16 luglio 2010
I treni a vapore
Oggi gita di lavoro. Un caldo atroce.
Prima di partire ti senti pronta a tutto. Per esperienza, sai che ti può capitare di tutto. Dal ragazzo che sta male a quello che rischi di perdere a quello che è una mina vagante.
Se capitano solo piccoli imprevisti, come oggi, la gita è da considerarsi un successone. E allora come niente fosse chiedi all'aiuto macchinista affacciato al finestrino se può aspettare 5 minuti prima di partire, che la collega è andata a fare i biglietti, sapendo in anticipo la risposta (glielo dice lei, a quelli che ci sono sul treno?), fai scendere i 20 ragazzi appena saliti, li rifai salire avendo avvistato la collega che corre lungo il binario, ti metti a urlare nei giardini pubblici "non hai il permesso di picchiare" a uno, e all'altra "e tu finiscila di rompergli le palle", spieghi la differenza tra lago e mare, dato che c'è qualcuno che dice che sono uguali, accompagni ai bagni pubblici una due tre volte, rimproveri uno che appena vede una panchina in stazione vi si fionda e se la donna lì seduta non è veloce a scartarsi me la butta giù, partecipi a una sbrodolata collettiva di ghiaccioli, rimetti in posizione una che si è messa a testa in giù.
Durante il viaggio di ritorno il treno faceva un gran baccano, il rombo del motore andava su di giri e poi pom pom pom si fermava, oppure procedeva a singhiozzo, sotto i piedi si sentiva un calore esasperato che sembrava provenire da tutto questo faticare, il 50% di ragazzi e insegnanti dormiva di quel sonno insano da esaurimento di forze.
Quando siamo scesi da quel treno infernale un mio alunno mi ha chiesto: "Ma, fuma, scusa, questo treno qui andava a vapore o a che cosa?"
Gli ho risposto mentre correvamo alla macchina che, no, non andava a vapore ma a elettricità , ma poi ci ho ripensato: A. il fiondatore di panchina occupata non aveva tutti i torti, se è vero come è vero che siamo usciti da quel treno che sembravamo tutti cotti a vapore.
domenica 11 luglio 2010
Engadina... Très Magnifique!
I segnavia che indicano il sentiero Maloja- passo Lunghin- passo Septimer si nascondono nel biancore dei nevai, ma basta seguire le tracce lasciate nella neve dai precedenti escursionisti per non perdere la direzione. Schiacciarla è come azionare il pulsante dell'aria condizionata: si sente un soffio, è il nevaio che emana spruzzi di aria fresca pronti a refrigerarmi e asciugarmi il sudore, quel sano sudore che odora di sana fatica del corpo e non di insana umidità appiccicosa.
Mi sento come un'anguria che entra nella cella frigorifera dopo ore di viaggio in un camion esposto al sole.
Il sole, già, e che sole ... un sole che non mi dà tregua, un sole accecante che mi segue in questo itinerario d'alta montagna sprovvisto di qualsiasi ipotesi di ombra che non sia quella delle nuvole, che però hanno disertato per lasciare il posto all'afa.
Per ridurre i danni della prevista scottatura sostituisco la canottiera con una maglia a manica lunga, ma per proteggere il viso la cosa non è così semplice, mica posso mettere il passamontagna.
Sono appena uscita dalla cella frigorifera quando un signore si rialza dalla postazione"giù per terra" tipica dei fotografi di fiori e:
" Hkzwhkzwhkzwhkzw.... WARM"
Ho capito solo che parla crucco. Niente di strano, siamo in Engadina, Svizzera tedesca.
(Forza, fuma, sfoggia il tuo inglese oxfordiano, visto che non sai il tedesco)
"WARM? Milano WARM, not here!" contesto
" Hkzwhkzwhkzwhkzw.... zich" prova a ribattere
"Where are you from?" cambio discorso, per superare il disaccordo
"Germany"
"Germany WARM? As Milano?" chiedo
"Ya, ya, six... sixteen... sixtythree... " risponde soddisfatto
"Sixtythree??? IMPOSSIBLE!" dissento categoricamente
"Ya, ya, ya, sixtythree" insiste
"Impossible, impossible, impossible" ridissento.
"ah, ah, ah, thirtysix" si corregge
Per suggellare l'accordo raggiunto, mollo la racchetta destra e alzo tre dita, poi mollo anche la sinistra e ne alzo sei. Adesso che ci penso già che avevo le mani libere avrei potuto proporgli "Give me five!" e battere cinque.
Poco dopo siamo al passo Lunghin, 2684 m, spartiacque tra Mar Nero, Mare del Nord, Mare Adriatico. Non so esattamente cosa voglia dire, ma dirlo fa una gran scena.
Lo scoprirò stasera: una goccia d'acqua che cade qui può prendere tre direzioni diverse. Quella dell'Inn e finire nel Mar Nero, quella del Reno e finire nel Mare del Nord, quella del Mera e, attraverso il Po, finire nel mare Adriatico. Chissà se lo decide lei, o se è scritto nel suo destino di goccia. Tutte le gocce del temporale che scoppierà tra poco, proveniente dal nord, hanno deciso di prendere la strada del sud, perchè ci seguono.
Fossi una goccia e potessi scegliere, invece, prenderei la strada del Nord, dove, a logica, dovrebbe fare meno caldo, a meno che si invertano i numeri come il fotografo tedesco.
Il titolo del post me l'ha suggerito la gentilissima signora francese che ci ha dato un passaggio da Casaccia al Maloja. Pioveva, non si vedeva un tubo ma lei guardava dal finestrino e mostrava il paesaggio le case gli alberghi al marito alla guida: "Très magnific! Très magnific! Très magnific!". Non è che dicesse solo quello, IO capivo solo quello.
Purtroppo quando siamo scesi mi sono accorta che coi nostri scarponi avevamo lerciato i tappetini dell'auto di super lusso.
Je suis désolé, gentille dame!
Mi sento come un'anguria che entra nella cella frigorifera dopo ore di viaggio in un camion esposto al sole.
Il sole, già, e che sole ... un sole che non mi dà tregua, un sole accecante che mi segue in questo itinerario d'alta montagna sprovvisto di qualsiasi ipotesi di ombra che non sia quella delle nuvole, che però hanno disertato per lasciare il posto all'afa.
Per ridurre i danni della prevista scottatura sostituisco la canottiera con una maglia a manica lunga, ma per proteggere il viso la cosa non è così semplice, mica posso mettere il passamontagna.
Sono appena uscita dalla cella frigorifera quando un signore si rialza dalla postazione"giù per terra" tipica dei fotografi di fiori e:
" Hkzwhkzwhkzwhkzw.... WARM"
Ho capito solo che parla crucco. Niente di strano, siamo in Engadina, Svizzera tedesca.
(Forza, fuma, sfoggia il tuo inglese oxfordiano, visto che non sai il tedesco)
"WARM? Milano WARM, not here!" contesto
" Hkzwhkzwhkzwhkzw.... zich" prova a ribattere
"Where are you from?" cambio discorso, per superare il disaccordo
"Germany"
"Germany WARM? As Milano?" chiedo
"Ya, ya, six... sixteen... sixtythree... " risponde soddisfatto
"Sixtythree??? IMPOSSIBLE!" dissento categoricamente
"Ya, ya, ya, sixtythree" insiste
"Impossible, impossible, impossible" ridissento.
"ah, ah, ah, thirtysix" si corregge
Per suggellare l'accordo raggiunto, mollo la racchetta destra e alzo tre dita, poi mollo anche la sinistra e ne alzo sei. Adesso che ci penso già che avevo le mani libere avrei potuto proporgli "Give me five!" e battere cinque.
Poco dopo siamo al passo Lunghin, 2684 m, spartiacque tra Mar Nero, Mare del Nord, Mare Adriatico. Non so esattamente cosa voglia dire, ma dirlo fa una gran scena.
Lo scoprirò stasera: una goccia d'acqua che cade qui può prendere tre direzioni diverse. Quella dell'Inn e finire nel Mar Nero, quella del Reno e finire nel Mare del Nord, quella del Mera e, attraverso il Po, finire nel mare Adriatico. Chissà se lo decide lei, o se è scritto nel suo destino di goccia. Tutte le gocce del temporale che scoppierà tra poco, proveniente dal nord, hanno deciso di prendere la strada del sud, perchè ci seguono.
Fossi una goccia e potessi scegliere, invece, prenderei la strada del Nord, dove, a logica, dovrebbe fare meno caldo, a meno che si invertano i numeri come il fotografo tedesco.
Il titolo del post me l'ha suggerito la gentilissima signora francese che ci ha dato un passaggio da Casaccia al Maloja. Pioveva, non si vedeva un tubo ma lei guardava dal finestrino e mostrava il paesaggio le case gli alberghi al marito alla guida: "Très magnific! Très magnific! Très magnific!". Non è che dicesse solo quello, IO capivo solo quello.
Purtroppo quando siamo scesi mi sono accorta che coi nostri scarponi avevamo lerciato i tappetini dell'auto di super lusso.
Je suis désolé, gentille dame!
venerdì 2 luglio 2010
raramente, ma accade
Raramente, ma accade, incontri persone che ti piacciono subito, a pelle.
Chissà, forse due anime simili si riconoscono dal fruscio del loro avvicinarsi prima ancora che si metta in moto il linguaggio del corpo e l'inutilità delle parole.
D. l'avevo conosciuto più di 10 anni fa in qualità di ex collega di G. e mi era piaciuto subito, per il fatto che mi aveva sbirciata dalla finestra, come un bambino, prima che gli venissi presentata.
Mi era piaciuto alla prima stretta di mano, al primo incrocio di sguardi per gli occhi limpidi, anch'essi da bambino, alle prime parole non convenzionali.
D. è un muratore. Un muratore bergamasco in pensione. Un muratore bergamasco lontano anni luce dallo stereotipo del muratore bergamasco rozzo, leghista, bevitore.
D. è una di quelle rare persone sprovviste di scorza, prive di difese. Che puoi offendere con un niente. Persone "senza guscio", come un uovo nato difettoso, che nessuno riesce a proteggere perchè anche se tenti di prenderlo in mano ti scivola tra le dita.
Che parlano senza sfoggio di sè, senza necessità di mostrare niente, solo buttando lì parole che rotolano come pedine sul tabellone del gioco dell'oca dimenticandosi di passare, prima, dal via della casella-ragione.
Per darvi un'idea di ciò che intendo, non si era ancora accomodato che già mi diceva: "Non devi dire quella frase lì, non è bella". Voi fareste un'osservazione del genere a una persona che avrete visto sì e no quattro o cinque volte, nel corso di una decina d'anni, occasionalmente, e non conoscete per niente, e non vedete da un sacco di tempo?
Al caffè, non ricordo in seguito a quale input, D. ha buttato lì una battuta su un classico, innocuo argomentino da pausa caffè: eutanasia.
Alla fine della serata, quando ormai io e la moglie di D. ci stavamo addormentando sul cuscino dei ricordi dei due ex cantonieri, G. regala all'ex collega un paio di scarpe in goretex e lui dice la sua a proposito della materia di cui siamo fatti noi. In modo semplice, due parole, niente di filosofico o scientifico, semplicemente un muratore che confronta la materia di cui è fatto il nostro corpo con altri materiali, aggiunge un pensiero che anch'io ho spesso e conclude con la consolazione che la materia di cui siamo fatti noi sparisce in poco tempo, ma lo spirito rimane.
Lui non lo saprà mai, ma a me piacciono persone così, persone semplici, adulti o vecchi cresciuti senza riuscire a proteggere il proprio nucleo incandescente rivestendolo col mantello e nascondendolo con la crosta, consapevoli di non possedere particolari strumenti culturali ma inconsapevolmente dotati di una capacità innata di sentire e pensare in profondo, come se niente fosse.
Chissà, forse due anime simili si riconoscono dal fruscio del loro avvicinarsi prima ancora che si metta in moto il linguaggio del corpo e l'inutilità delle parole.
D. l'avevo conosciuto più di 10 anni fa in qualità di ex collega di G. e mi era piaciuto subito, per il fatto che mi aveva sbirciata dalla finestra, come un bambino, prima che gli venissi presentata.
Mi era piaciuto alla prima stretta di mano, al primo incrocio di sguardi per gli occhi limpidi, anch'essi da bambino, alle prime parole non convenzionali.
D. è un muratore. Un muratore bergamasco in pensione. Un muratore bergamasco lontano anni luce dallo stereotipo del muratore bergamasco rozzo, leghista, bevitore.
D. è una di quelle rare persone sprovviste di scorza, prive di difese. Che puoi offendere con un niente. Persone "senza guscio", come un uovo nato difettoso, che nessuno riesce a proteggere perchè anche se tenti di prenderlo in mano ti scivola tra le dita.
Che parlano senza sfoggio di sè, senza necessità di mostrare niente, solo buttando lì parole che rotolano come pedine sul tabellone del gioco dell'oca dimenticandosi di passare, prima, dal via della casella-ragione.
Per darvi un'idea di ciò che intendo, non si era ancora accomodato che già mi diceva: "Non devi dire quella frase lì, non è bella". Voi fareste un'osservazione del genere a una persona che avrete visto sì e no quattro o cinque volte, nel corso di una decina d'anni, occasionalmente, e non conoscete per niente, e non vedete da un sacco di tempo?
Al caffè, non ricordo in seguito a quale input, D. ha buttato lì una battuta su un classico, innocuo argomentino da pausa caffè: eutanasia.
Alla fine della serata, quando ormai io e la moglie di D. ci stavamo addormentando sul cuscino dei ricordi dei due ex cantonieri, G. regala all'ex collega un paio di scarpe in goretex e lui dice la sua a proposito della materia di cui siamo fatti noi. In modo semplice, due parole, niente di filosofico o scientifico, semplicemente un muratore che confronta la materia di cui è fatto il nostro corpo con altri materiali, aggiunge un pensiero che anch'io ho spesso e conclude con la consolazione che la materia di cui siamo fatti noi sparisce in poco tempo, ma lo spirito rimane.
Lui non lo saprà mai, ma a me piacciono persone così, persone semplici, adulti o vecchi cresciuti senza riuscire a proteggere il proprio nucleo incandescente rivestendolo col mantello e nascondendolo con la crosta, consapevoli di non possedere particolari strumenti culturali ma inconsapevolmente dotati di una capacità innata di sentire e pensare in profondo, come se niente fosse.
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