Le volevo chiedere una cosa sola, quella che mi premeva di più visto che me lo sto chiedendo da quando mio cognato sta morendo, ma come spesso si fa con le domande forti l'ho presa troppo alla larga, così prima che arrivassi al dunque il servizio d’ordine ha chiamato dentro tutti quelli delle quattordici e trenta e lei essendo delle quattordici e quindici è rimasta fuori.
Quello che volevo chiederle era: per la sua esperienza professionale, quanti modi ci sono di affrontare la morte? Ci sono persone che riescono ad accettarla, che si spengono serenamente?
Il 10 marzo ritornerò per la seconda dose, con gli stessi operatori, chissà se mi capiterà di rivedere quella donna e se riuscirò a chiederglielo senza prenderla ancora alla larga.
Intanto da settimane mi torna in mente il libro: Senza consolazione, dove il figlio di Susan Sontag ripercorre gli ultimi mesi della terribile malattia della madre. Si chiede se abbia fatto tutto quello che poteva fare, se non avrebbe potuto fare di più, prima dell’esordio della malattia accorgendosi che qualcosa non andava, durante la malattia per alleviarne le sofferenze dell’anima prima che del corpo. Soprattutto, lo tormenta il dubbio se l’atteggiamento da lui tenuto nei confronti della madre sia stato giusto –non nel senso assoluto, ma nel senso di quello che lei si aspettava da lui; o se invece quello che lui ha saputo e voluto dare alla madre in quell’ultimo brandello di vita sia stato solo un “Calice avvelenato di speranza”, come lo definisce nel tormento delle ultime pagine.
Brano tratto dal libro “senza consolazione”, di David Rieff“ Mentre giaceva agonizzante allo charitè hospital di Berlino, Bertold Brecht scrisse una straordinaria serie di poesie. Nell’ultima, osserva alla finestra un uccellino che canta su un albero. Dopo la sua morte, l’uccellino sarà ancora vivo, sull’albero, a gorgheggiare il suo splendido richiamo. La saggezza della poesia sta nel saper riconciliarsi dell’artista con quella realtà, nel saper godere della bellezza del mondo rassegnandosi alla propria transitorietà, alla propria evanescenza. “perché non può esserci niente che non va per me- scrive- se io stesso sono nulla, ora riesco a rallegrarmi anche del canto dei merli che verrà dopo di me.” Naturalmente, lo scettico che è in me si chiede come siano davvero andate le cose per Brecht e per quelli che gli stavano accanto in quegli ultimi giorni”
ti mando un abbraccio.
RispondiEliminaMia madre ha una malattia purtroppo degenerativa, spesso mi chiedo se sto facendo il possibile, se sto facendo quello che si aspetta da me. Non ho la risposta, forse non c’è probabilmente.
Povera, ma lei ne è cosciente? Quel che viene istintivo dal cuore e dall'affetto non può che essere giusto, e se si dovesse sbagliare l'abbiamo fatto in buona fede, e questo ci assolve. Ma ..risposta non c'è. ..è vero!
EliminaEcco la mia esperienza, personale e di psicoterapia e di medicina.
RispondiEliminaQualunque cosa si faccia o non si faccia per i nostri cari, dopo ci si sente un po' in colpa.
Anche nell'ultima fase della vita la medicina e i farmaci aiutano.
Lo stesso, mutatis mutandis, vale per l'ora della propria morte.
Meglio coltivare le buone relazioni extra ed intrafamiliari, più che altro per la vita.
La medicina e i farmaci aiutano a lenire la sofferenza fisica, ma quella dell'anima? Forse La fede, per un credente, e in caso contrario? La vicinanza dei propri cari sicuramente, ma se la persona non accetti la morte anche questo non basta.
RispondiEliminaSi fa quel che si può.
Elimina(Non accettA la propria morte)
RispondiEliminaQuando è morta mia mamma sapevo di poterle solo stringere la mano forse per più tempo. E lei sapeva che ero lì. Ma ognuno somatizza a modo suo, e a volte, non somatizza affatto.
RispondiEliminaLa presenza è tutto, le parole non servono in certi momenti.
Eliminanon ricordo chi fosse colui che scrisse che suo padre, sentendo avvicinarsi l'ora, lo mandò fuori con una scusa, per non farsi vedere morire.
Ciao il dolore fisico mi spaventa. la morte no. Fino da piccoli prendiamo confidenza con la morte, non una tragedia ma la normale fine della vita
RispondiEliminaSono fatalista e scrivo con condizione di causa tre anni orsono mi hanno diagnosticato un tumore e non ho mai avuto paura di morire sapendo che era una opzione. Oggi mi dicono che presto sarò dichiarato guarito.
Ciao fulvio
Io non so se ho paura di morire, certo il dolore fisico spaventa molto di più. Una morte indolore, veloce, chi non ci farebbe la firma? Quali sono stati i tuoi sentimenti predominanti al momento della diagnosi di una malattia così spaventevole? Davvero non avevi paura? Che coraggio! Sai cosa è successo pochi giorni fa in un comune limitrofo? Un uomo di 46 anni a cui avevano diagnosticato un cancro -avendo visto morire il fratello dello stesso male- non ha retto e si è tolto la vita. Non è terribile?
EliminaCara amica non sono coraggioso semplicemente accetto che prima o poi dovrò morire. possibilmente poi.
EliminaCiao fulvio
Lo dico anch'io, Ma poi non so come reagirei alla notizia di una brutta malattia: depressione? Panico? Sconforto e Disperazione? Accettazione? Desiderio di verità o desiderio di speranza che arrivi anche all'illusione nonostante l'evidenza?
Eliminagrandi domande le tue cara Silvia: la fede, e per certi versi anche la ragione, ci dicono che la nostra anima è immortale; a chi non la possiede credo aiuti molto il conforto dei propri cari e una vita ben spesa, senza troppi rimpianti!!!
RispondiEliminaCome può la ragione sostenere l'immortalità dell'anima, caro Luigi?
RispondiEliminacredo che possediamo una sorta di sesto senso che ci dice, anche alla luce della ragione, che il nostro io pensante (un altro modo per dire anima) sopravviverà alla morte del corpo perchè è puro spirito, e lo spirito non può morire.
EliminaBah! Credo che Il sesto senso e la ragione siano ossimori!
EliminaIl dolore fisico l'abbiamo sperimentato tutti, e ci fa paura. La morte pure l'abbiamo avuta vicino, forse non ci spaventa troppo ma certo non fa molta allegria. Basti vedere i molti meccanismi inventati per esorcizzarla fin dai tempi più lontani. Oggi, forse, si preferisce ignorarla (negarla) o razionalizzarla rendendola asettica il più possibile.
RispondiEliminaQuando muore un parente stretto di un dipendente dell'ente in cui lavoro, al cartellino mettono un avviso, scrivono che il parente di Pinco pallino è SComparso. Mi viene sempre da dire: allora chiamiamo la Sciarelli.
RispondiEliminaIo credo che l'accettazione della morte sia una conseguenza della consapevolezza di avere vissuto in modo autentico la propria vita, il non avere rimpianti per aspetti o fasi della vita non vissuti. Penso che chi ha paura della morte ha anche un po' paura della vita, di trasformarsi, di accettare il nuovo. Chi è intento a vivere con intensità e senso i propri giorni non pensa alla morte e alla fine forse riesce a viverla come una cosa naturale. Camilleri a 90 anni disse che non aveva paura della morte, era curioso...
RispondiEliminaIo distinguerei tra l'accettazione della propria mortalità, tappa maturativa di tutti noi dai tempi di Gilgamesh, e l'accettazione, quando è il momento, della propria morte, che è una faccenda molto individuale.
EliminaDirei che sono due modi interessanti di vedere la faccenda, ci penserò su. Grazie!
EliminaNo guarda, a me ste cose mi mandano in bestia, anche io forse avrei potuto fare di più per mia madre, tutti noi avrebbero potuto fare di più e dopo la loro morte avrebbero anche voluto; ma io, come tutti ho fatto quello che ero capace di fare, quello che mi sentivo, quello che sapevo fare, poi c'è un di più che c'è sempre ma non fa parte dei miei tormenti.
RispondiEliminaI sensi di colpa sono fardelli inutili però a me vengono naturali, e poi mi aiutano a fare autocritica e a migliorarmi...
RispondiEliminaSe tu non hai questi problemi meglio per te! ;)
Silvia, li ho ma cerco di scansarli perchè mi fan male.
EliminaAh ecco adesso sì che sei sincero ... il tuo commento precedente la faceva troppo facile!
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